sabato 18 aprile 2020

e se avessimo paura di ricominciare la vita di prima?

Può il COVID19 averci fatto questo?

Ci siamo adattati ai tempi lunghi, a nuovi spazi, alla vita senza frenesia,a dover gestire il tempo, che prima non avevamo mai...Tutto questo può averci totalmente trasformati?
La mattina mi sveglio allo stesso orario senza l'ansia che provoca la sveglia...faccio la cyclette, poi la colazione, poi sistemo i gatti.
Controllo le mail, normalmente nulla, o richieste di rinvio di convegni, da gestire ...con un pò di rabbia..quando si faranno? quando ricomincerò? come ricomincerò?
La casa, gestione di una cosa che è mia e prima non mi apparteneva, ora stiro, passo la spirapolvere, lavo per terra, metto un pò di ordine...CUCINO
Faccio la spesa su internet, ma anche compro le piante, le pantofole e quant'altro serve ...non mi privo della millefoglie di Proietto e neanche della cena di Japan cuisine di Oxidiana.
La vita scorre bene, molta lettura ... con un caffè vicino o con un'acqua tonica al pomeriggio..faccio tante cose.
E poi accolgo la spesa, che non è poco...guanti: disinfettazione di tutto, quarantena di un giorno per alcune cose..insomma la vita scorre senza la frenesia di prima E NON MI DISPIACE, non mi dispiace stare a casa...fare giardinaggio ...
Secondo me lo stare a casa FORZATI fa venire fuori le nevrosi e forse questo mi sta servendo per avere scoperto me stessa paziente e serafica, con una grande calma interiore e spirito di adattamento.
Immagino la critica: hai certamente una casa comoda, non sei in due vani con 3 bambini e un marito violento...e anche questo è vero...
Per fortuna no, per fortuna sono una privilegiata.
Ma la serenità a cui mi riferisco non è dei confort casalinghi, ma INTERIORE e questa si ha ovunque. Provate a conquistarla, cambia la prospettiva di tutto

giovedì 16 aprile 2020

La Sicilia che è in me - di Grazia Cotoloni

Enna mi apparve

Avevo 25 anni e mi ero laureata e sposata. A gennaio 1977, dopo un viaggio
di circa 12 ore in una auto utilitaria carica di bagagli, verso sera, vedo
apparire una forma scura lassù in alto. In quel momento mi sono resa conto
che andavo a vivere “lassù” cioè sopra quella roccia scura e inquietante che
dominava la Sicilia. La provincia più povera e più alta d’Italia. Il cuore scuro
della Sicilia.

La casa di Enna


Avrei desiderato abitare in un appartamento storico in pieno centro o in una
palazzina di tufo, in uno dei vicoli di Enna, tra salite e discese, tra gli odori di
cucina e i muli che salivano a fatica le scale. Purtroppo l’appartamento era
nella zona nuova fuori Enna, in una specie di grattacielo di 9 piani, al settimo
piano. All’entrata c’era la portineria con un anziano austero in divisa. Mi
stancavo ad attraversare le stanze, non ero abituata ad uno spazio di 190 mq
perché cresciuta in un piccolo appartamento nella periferia di Ancona dove
non avevo uno spazio mio e dormivo in un divano letto. Nel palazzo di Enna
vivevano gli impiegati dirigenti e i professionisti, gente di “riguardo”; una
finestra si affacciava sul cimitero, un’altra invece verso Calascibetta, paesino
di tufo sopra una roccia, ricco di grotte come un presepe, immerso nel cuore
della Sicilia. Nelle belle giornate potevo ammirare l’Etna con la punta
innevata ma spesso c’era la nebbia e la mattina presto quando il mio ex
marito si alzava per andare in cantiere, mi diceva per rallegrarmi “Oggi non si
vede il cimitero!”. In quegli anni era di gran moda l’arredamento rustico e
ordinammo da una fabbrica del nord dei mobili di legno chiaro e le stanze al
settimo piano si trasformarono in un tipico appartamento dei paesi di
montagna. Solo più tardi, entrando nelle case delle amiche siciliane, ho
scoperto il fascino dei mobili antichi, con gli splendidi intarsi delle
cassapanche, e altre preziose decorazioni con dipinti floreali e nature morte. I
siciliani hanno innato il sentimento del bello.



La Baronessa Rosso


Arrivata da poco ad Enna non avevo niente da fare. L’unico mio impegno era
di dovere cucinare la cena per due perché ero da sola per tutto il resto della
giornata. Non sapevo né pulire né stirare, mia madre non mi aveva mai
chiesto di fare niente in casa, avevo solo studiato. Decisi di imparare a
cucinare e mi arrivò per posta l’Enciclopedia: “La buona cucina italiana”. Nel
resto del tempo vagabondavo per le vie della parte alta di Enna, la più
vecchia, dove ho scoperto un piccolo negozio di artigianato, in uno spazio
rustico chiamato “L’artigianato del sole”, di proprietà della Baronessa Rosso
che abitava nei piani di sopra. Era soprattutto un negozio di ceramiche
bellissime con “bummoli”, terracotte, piatti con decorazioni tradizionali di
Caltagirone ma anche piccole sculture moderne di artisti contemporanei. La
baronessa era particolarmente cordiale con me, attratta dal mio accento
settentrionale e soprattutto perché moglie di un ingegnere di una impresa del
nord. Alcuni anni prima Enna aveva accolto molti lavoratori del Nord durante i
lavori dell’autostrada Enna, Catania, Palermo; questo aveva stimolato
l’apertura di uffici e banche e dato l’illusione che un po’ di ricchezza
rimanesse per sempre in paese. L’autostrada aveva deturpato il paesaggio
con il cemento ed Enna era rimasta invece la provincia più povera d’Italia. La
baronessa mi mostrò la sua abitazione dove viveva con il marito; la ricordo
scura e “accupusa”, ricca di mobili antichi e di tappeti. Nelle pareti erano
appese delle teste di animali selvaggi: i trofei di caccia dei safari fatti durante i
loro viaggi in Tunisia, il loro divertimento preferito oltre a quello di organizzare
dei ricevimenti con inviti molto esclusivi di persone importanti. Con mia
grande sorpresa sono stata invitata alla festa di compleanno di una loro figlia.
L’invito era soprattutto motivato ad agganciare mio ex marito capo cantiere in
previsione di possibili guadagni, si sa che un favore deve poi essere
ricambiato. Anche se incuriosita e bisognosa di avere una vita sociale, ho
rifiutato con una scusa; i discorsi con la Baronessa si sono interrotti e poiché
avevo già acquistato vari oggetti, da quel giorno ho evitato di entrare in
negozio. Mi chiedo ora, perché ho rifiutato? 1- sono figlia di contadini e nata
in campagna in una casa senza bagno, da bambina giocavo con i giochi rotti
buttati nel “grasciaro” cioè il letamaio, e mi sento a disagio tra i “signori”; 2-
non sopportavo di essere apprezzata solo come “moglie di…” 3- la
Baronessa, anche se elegante e con dei bei gioielli addosso, mi sembrava
una donna infelice, spenta e annoiata, nonostante i colori delle “Ceramiche
del Sole”.


La mia piccola mafia quotidiana

Ho capito presto che venivo guardata come una privilegiata. Pensavo che
fosse perché venivo dal continente o perché giravo da sola in piazza e lungo i
vicoli; poi ho capito che la situazione era più complessa quando sono andata
per la prima volta all’Ufficio Postale per pagare le bollette. Ero in piedi in
fondo ad una lunga fila e l’impiegato, che mi aveva osservato da dietro lo
sportello di vetro, mi ha fatto il cenno di avvicinarmi. Ho superato la lunga fila
di persone perché pensavo di ricevere qualche comunicazione importante,
non ero mai stata in un ufficio postale perché a casa ad Ancona mio padre si
occupava di tutti gli aspetti burocratici di casa. Con mia grande sorpresa e
imbarazzo, l’impiegato mi aveva riconosciuto come la “moglie di” qualcuno
importante e mi aveva dato la precedenza senza che qualcuno protestasse.
Ho capito che venivo osservata e tutti sapevano che abitavo ad Enna con un
marito che dirigeva un cantiere a pochi chilometri; dovevano costruire una
diga sul fiume Dittaino, nella campagna tra Enna e Catania, il lavoro non fu
mai portato a termine, come accadde in quel periodo a tanti altri lavori dati in
appalto ad imprese del nord.
Un’altra esperienza simile è accaduta nello studio di un dentista. Ero in sala
d’attesa con una decina di persone in fila prima di me. L’infermiera mi ha
vista e mi ha fatto cenno di entrare. Allora ho protestato, “Non è giusto!” e
arrabbiata guardando alcune persone anziane sedute ho detto: “Ma perché
state zitti, perché vi sottomettete a questa ingiustizia?” mi hanno guardato
storto e uno di loro mi ha risposto: “ Signurì ma cui voli vossia da noatri?
Accussi iè, trasisse!”. Sono entrata tutta accaldata e il dentista mi ha fissato
con un risolino ironico; mi ha invitato a sedere e si è accanito sul mio dente e
mi ha fatto pagare per aver eseguito una falsa devitalizzazione, l’ho scoperto
qualche anno dopo dal dentista di Ancona.
Quando andavo a fare benzina accadeva spesso che il benzinaio si rifiutasse
di farsi pagare dicendo: “E’ tutto a posto”.
I lavori dell’edilizia dell’ennese erano controllati dalla famiglia dei Santapaola.
Il mio ex marito che aveva una guardia del corpo in cantiere, un ex operaio
che aveva perso il lavoro, un giorno mi confidò che aveva incontrato Nitto
Santapaola e che gli era sembrato un uomo dai modi eleganti e di cultura.
Ogni giorno diventavo sempre più confusa e delusa. Non ero certo orgogliosa
della mia posizione cosiddetta “privilegiata” in realtà mi vergognavo e mi
sentivo in colpa per avere tradito i miei valori di uguaglianza sociale che
credevo condivisi dal ragazzo figlio di un operaio che avevo deciso di seguire,
allontanandomi dal mio ambiente familiare. Gli studi sul marxismo, le
manifestazioni e i collettivi sembravano ormai lontani ed io che ero stata
l’unica della famiglia estesa a laurearsi ( i miei cugini non hanno un diploma, i
miei genitori avevano frequentato la seconda elementare, mia madre e la
quinta mio padre con un corso serale) ero diventata lo stereotipo della
“signora” borghese, in stile Madame Bovary.
Ad Ancona facevo parte di un collettivo femminista e ho scoperto che c’era
anche ad Enna ed è diventato il mio punto di riferimento. Da una pagina di
diario ad Enna il 7/9/1978:
“Scrivere in cucina, mentre guardo la pentola con la marmellata di fichi da
mescolare. Riflessioni dopo la riunione del collettivo femminista, l’ultima,
forse. Imbarazzo, facce tese, lunghi silenzi da parte mia e di Maria Greco,
tentativi di conversazione, lasciati cadere perché i toni erano forzati e non
sinceri. C’è paura di esporsi, si “gioca” a far scoprire gli altri, si cerca il capro
espiatorio su cui centrare la discussione. Ieri Cettina, il capro espiatorio di
turno, era assente. E’ stato un bene perché si è capito che nessuno voleva
dire niente di troppo coinvolgente di sé. Astrazioni: ma il collettivo cos’è sono
i rapporti interpersonali, ma tra chi? Tra te e te, te e lei, lei e nessuno, lei e
tutte ma non tutte con lei. Relazioni mai chiarite o non abbastanza perché
chiarire fa stare male e alcune dicono di avere pagato troppo; altre dicono
che bisogna occuparsi di qualcos’altro, dell’aborto, della lettura… uscire da
noi stesse e ricominciare?! In altre parole, fino ad ora ci siamo lanciate una
serie di messaggi verbali poco comprensibili perché discordanti con i gesti, i
silenzi ei comportamenti. Questi ultimi si è preferito non volerli analizzare
(disoccultare l’occulto)”.
Questi termini tra parentesi e anche quelli di “capro espiatorio” sono dei
riferimenti agli studi di Psicologia di allora, infatti mi ero iscritta all’Università
La Sapienza di Roma e già mi atteggiavo a fare la piccola psicoanalista.
Il collettivo femminista ennese ha avuto dei momenti gloriosi quando ha
organizzato una manifestazione a favore della legge sull’aborto. Ricordo la
sfilata di donne vestite di nero, in un corteo funebre, per denunciare le donne
morte con gli aborti clandestini. Poco prima nel 22 maggio del 1978 era stata
approvata la legge 194. Questa pagina di diario mi fa ricordare i miei silenzi
durante gli incontri dei collettivi femministi ad Enna come ad Ancona dove
erano frequenti degli scontri e degli attacchi personali molto duri.
Da una pagina di diario del 27/2/79 dopo una festa in una scuola, forse quella
dove lavoravo come assistente sociale con i bambini con handicap
nell’équipe psicopedagogica appena istituita:
“Anche il carnevale non è per tutti. Tra tanti colori e luccichii c’è qualcuno
grigio, con la tristezza di sempre. Mandateli via quei bambini grigi, stonano
troppo con gli altri variopinti e mettono a disagio qualcuno. Anche la mia
faccia non è in sintonia; più ridono e più divento seria. Andate via con le
vostre finte risate piene di denti gialli, non avvicinatevi, non voglio vedervi.
Voglio rannicchiarmi tra le coperte come se non foste mai esistiti”


Annarosa Restivo

Le donne siciliane del collettivo femminista di Enna erano molto creative, con
senso pratico, voglia di sporcarsi le mani, di cucire, dipingere e scrivere. La
ricchezza artistica della Sicilia era bene rappresentata da quel gruppo di
ragazze visionarie, nel senso di persone lucide/folli che ottenevano risultati
insperati e avevano l’immaginazione di desiderare altri mondi possibili. La
mia più grande amica visionaria è stata Annarosa; anche se non è più in vita,
continua ad essere presente nella mia. Quando l’ho incontrata la prima volta,
ricordo la sorpresa e l’imbarazzo nel vedere uno strano esemplare
barcollante avanzare verso di me. Maria Greco, un’amica del collettivo mi
aveva detto: “Devi conoscere Annarosa, è un’artista” senza aggiungere “è
una disabile”, poi ho capito che questa informazione era poco rilevante oltre
ad essere dispregiativa. Annarosa mi è sembrata divertita dal mio sconcerto
e allora mi sono giustificata dicendole che me la immaginavo alta e bionda.
Lei è scoppiata in una delle sue risate dirompenti, simili ad improvvisi
terremoti, in cui si liberava rumorosamente tutta l’energia del suo piccolo
corpo pelle ed ossa. Annarosa si era ammalata da bambina di poliomelite,
dicevano, invece ho letto la sua cartella medica che si trattava di Artrite
Reumatoide. Anche se colpita da tante menomazioni e deformità era uno
strano essere con una sua grazia. Nel suo racconto autobiografico dal titolo
“Pinocchia” scriveva di sé: “Era stata uno strano aggeggio che funzionava
come un essere umano, prima. Le sue grandi scoperte, salendo su e giù in
un andirivieni alla Escher, furono la parola e il riso”.
Sua madre, che non ho mai conosciuto, apparteneva alla famiglia nobile dei
Baroni La Lumia, proprietari terrieri a Canicattì e aveva sposato l’avvocato
Restivo, anche lui deceduto, di cui Annarosa non parlava mai. La sorella
maggiore abitava al piano superiore con la sua famiglia, il fratello minore
viveva in una masseria in campagna ad alcuni chilometri con la propria
famiglia. Annarosa viveva da sola in un grande appartamento con tante
stanze, stucchi, affreschi e preziosi mobili antichi. Disegnava, dipingeva e
scriveva nello sgabello accanto al tavolo di fronte alla finestra che si apriva su
di una veranda/porticato, decorato con maioliche in cui si distingueva lo
stemma di famiglia dei “La Lumia”: due limoni su sfondo azzurro; lumia è una
varietà di limone. Qualche volta Annarosa mi aveva parlato dello zio Barone
La Lumia, descrivendolo come un uomo stravagante che un giorno partì da
Canicattì per andarla a trovare all’Ospedale Rizzoli di Bologna dove dopo vari
interventi chirurgici riuscirono a farla camminare zoppicando. Il Barone entrò
in ospedale con la coppola in testa, il foulard di seta e un grande mazzo di
rose rosse; attraversò la corsia gridando: Dov’è mia nipote?”. Ero
impressionata da questi racconti perché cresciuta con i genitori e i parenti
contadini, mi intimidivo davanti alla nobiltà, nonostante gli studi sul marxismo
e la partecipazione ai movimenti studenteschi mi avessero fatto alzare la
testa e avere rispetto di me stessa.
Annarosa, dentro di sé, sentiva di essere una nobile, cresciuta tra gli arredi
preziosi, i libri e la musica. La madre era una donna colta che amava la lirica
e Annarosa ricorda le organizzava delle feste in cui dopo lo spettacolo
dell’opera venivano invitati i cantanti.
Ricordo Annarosa seduta sullo sgabello con una mano appoggiata sul mento
e l’altra che teneva la matita o il pennello. In quella stanza, illuminata dalla
bella luce della veranda piena di piante, ho trascorso tanti pomeriggi a
prendere il thé e a parlare dei film e degli artisti siciliani. Ad Enna c’era un
solo Cinema poco frequentato e spesso non proiettava perché poco
frequentato. Molte volte ero triste e Annarosa diceva: “Ma perché tutti venite
a “chianciri” da me?” Era assurdo infatti che proprio lei con tanti problemi di
salute fosse diventata il sostegno di molti amici insoddisfatti che cercavano la
loro strada. Io la consideravo l’amica più grande di me, più saggia e più forte,
il rifugio dei miei momenti tristi.

Annarosa era un po’ pazza, dalla raccolta di poesie “Occasioni”:

E ti vestivo di me
E la pazza fantasia
Correva come un cucciolo sulla tua pelle;
e ti vestivo di me
e le ore nei muri provvisori
scivolavano silenziose
mentre immagini di carta
tentavano di imprigionarti
e ti vestivo di me
e i nostri sorrisi inquieti
si scontravano disordinatamente nel gioco ambiguo
quando ti volevo vestire di me
ieri.”

Aveva tanti amici artisti e a volte si era innamorata ma su questo era molto
riservata.
Ho imparato tanto da lei finchè è stata in vita: la capacità di avere cura di sé e
di piacersi così com’era, con una grande autonomia di pensiero e grande
resilienza, nel senso della capacità di affrontare il dolore e la morte. Mi ha
cercato sempre quando sono ritornata ad Ancona e più spesso quando ha
scoperto di essere molto malata, invitandomi ad andare a trovarla Enna. Non
mi ha detto il motivo ma forse ho avuto una intuizione perché mi aveva fatto
avere un suo quadro che sapeva piacermi molto quando vivevo ancora ad
Enna. Sono partita immediatamente, lasciando Lorenzo con il padre. Sono
arrivata in tempo per starle vicino nei suoi ultimi momenti di vita. E’ stato il
suo più bel regalo. Mi aveva fatto preparare una caponata di melanzane,
sapendo che era un piatto molto gradito, anche se lei aveva nausea e non
poteva più mangiare.
Ha deciso fino all’ultimo come voleva essere curata e diceva: “Non voglio il
medico più bravo ma solo un medico che ha rispetto per il mio corpo e niente
ospedale”. “Vedi come sono diventata brutta?” le ho risposto cercando di
scherzare: “Dai! non sei mai stata una donna stupenda” lei ha detto,
scandendo bene le parole: “Io sono stata bellissima!”. Annarosa ha saputo
rendere anche la sua morte un’opera d’arte. Ha lasciato un testamento che
inizia così: “Prima di tutto tirate fuori il mio corpo da quella tombaccia di
famiglia e fate in modo che esso venga cremato. Ci sono ditte specializzate
nel settore anche in Sicilia, dunque niente scuse. E’ già raccapricciante il
pensare di essere stata posta sul letto di morte con chissà quale diavolerie di
vestito per poi essere chiusa in prigione (ancora una volta). Segue un elenco
di nomi di amici, parenti e conoscenti a cui ha lasciato tutto ciò che
possedeva. Io ho ereditato le sue videocassette di films. In particolare gli
amici poveri hanno ricevuto i beni più preziosi; la sua badante ha ricevuto una
cospicua somma di denaro e il suo piccolo appartamento di Bologna in un
seminterrato dove ha vissuto da sola per 2 o 3 anni. Un terreno è stato
donato al W.W.F., con grande rabbia della sorella maggiore. Purtroppo ha
lasciato i suoi oltre 400 dipinti al suo amico ex gallerista che li ha rinchiusi in
una cassapanca e poi si è ammalato di Alzheimer e ora è deceduto. Ho fatto
un inutile viaggio ad Enna per stimolare gli amici a recuperare i dipinti ma
nonostante i buoni propositi, nessuno si è mosso. Il suo testamento si
conclude così:

“Fino a poco tempo fa pensavo che il trapasso di chi muore fosse graduale,
nonché agevolato dai pensieri gentili e amorosi di chi rimane in vita e che ha,
bene o male, conosciuto la morte quando era in circolazione su questa terra.
Attualmente mi limito a sospendere ogni mia opinione sull’argomento e
sull’aldilà, anche se forse, sotto, sotto, continuo a sostenere il pensiero di cui
sopra. Insomma come scrisse Cesare Pavese prima di suicidarsi “non fate
pettegolezzi” Addio.
Firmato: Annarosa Restivo.




Il ricordo di Marilina Liuzzo

L’ho conosciuta al Collettivo femminista ennese; aveva pochi anni meno di
me ed è deceduta precocemente per un cancro all’intestino. Si era da poco
laureata in medicina a Catania, era la più curiosa, la più spiritosa, la più
divertente. La sua storia è piena di luci ed ombre. Il padre era un medico
primario, appassionato di pesca subacquea, morì tragicamente durante
un’immersione nelle acque di Lipari (credo). Non era solo durante
l’immersione ma con un altro medico suo subalterno che dopo la sua morte
occupò il suo posto. Fu una morte che lasciò molti dubbi perché il dott. Liuzzo
era molto esperto nelle immersioni. Quando suo padre morì, Marilina era
ancora una adolescente e ricordava spesso di aver provato vergogna, era
stata Anoressica durante il lungo lutto che si trovò a vivere insieme alla
madre e al fratello minore. Spesso entravamo nello studio del padre che
ricordo con un tavolo antico ricoperto di pelle, molto austero e una libreria
carica di libri. Ricordo di essere stata spesso invitata ad Acicastello nella
casa di sua nonna paterna, vedova di un generale che era stato in Africa nel
periodo della guerra. In estate ad Acicastello, le acque scure profonde tra i
faraglioni sono state le prime in cui mi sono immersa, incoraggiata da
Marilina che era acquatica, intraprendente e coraggiosa. Mi ha fatto scoprire i
luoghi bellissimi della provincia di Enna e di Catania. E’ stata anche il mio
medico perché si è presa cura di me quando avevo gli attacchi di panico.
Marilina era imprevedibile, spesso rimaneva a Catania nella casa della nonna
ad Enna, poi arrivava all’improvviso e scompariva di nuovo per qualche
tempo. Era sempre piena di impegni, non c’era il cellulare e i contatti non
erano facili. Quando arrivava, ero sempre disponibile per stare con lei.
Marilina aveva dei capelli folti e molto ondulati rosso castani, li portava lunghi
ma a volte anche corti un po’ da maschiaccio. Li gettava all’indietro e mi
ricordava una leonessa. Non aveva molto tempo per sé e quando andavo a
trovarla a casa sua, si lavava e asciugava i capelli tra chiacchiere, risate e
commenti seri.
Marilina era una pioniera, anche lei visionaria. Era diventata ginecologa e
lavorava al Consultorio familiare, omeopata, praticava il parto naturale in
casa, anche in acqua secondo un metodo famoso. Un giorno mi ha portato
con sé all’Ospedale di Catania e mi fece osservare un parto. Eravamo un
gruppo di persone intorno ad una donna che urlava disperata. Mi era
sembrato disumano ma quando il bambino è uscito, mi sono commossa.
Forse ricordando quel momento non ho urlato quando è nato mio figlio
Lorenzo, dopo un parto precipitoso e anche un po’ a rischio.

La giacca scambiata (scritta per Marilina)
Invece della mia giacca,
avvolgente e un po’ languida,
la tua giacca di pelle nera
ammiccante e intraprendente
mi trasmetteva un po’della tua aria di sfida
la tua voglia di allegria.
Chissà
se anche tu,
con indosso la mia giacca
ti sarai sentita un po’in me incerta e malinconica?




I miei lavori ad Enna.

La maggior parte dei giovani che conoscevo erano disoccupati o lavoravano
in modo precario. Attori, artisti, eterni studenti, artigiani. In quegli anni uno
stile di vita era quello di fare dell’artigianato. Mi sono acquistata una vecchia
macchina da cucire a pedali Singer e credo di essere riuscita a cucire una
tutina gialla, in stile “figlia dei fiori”. Per circa 6 mesi ho fatto l’esperienza di
aiutare un’amica, Maria, in un negozietto di artigianato, dove vendevamo
oggetti fatti da noi: collanine, sandali di cuoio infradito, decorati a fiorellini,
pupetti di Das, soprattutto dei piccoli Pierrot. In un pomeriggio di inverno
entrò un uomo ubriaco che cominciò ad infastidire Maria e mostrò anche di
avere un coltello. Dopo quell’episodio mi sono decisa a dire che non ne
potevo più, non mi piaceva aspettare i clienti e vendere, anche se questo non
era un gran problema perché nessuno comprava. Era troppo noioso e non mi
piaceva far mettere i sandalini a fiori nei piedi sporchi dei giovani che
venivano dalle campagne, dove vivevano in comuni freak.
Mi sono presa un veloce diploma di Assistente Sociale (avevo già la Laurea
in Lettere con 110 e lode) e ho iniziato a lavorare nelle scuole, svolgendo i
compiti più insoliti. Era un lavoro tutto da inventare con i bambini difficili o con
un handicap. Non c’erano le Asl ed ero stata assunta dal Comune di Enna
con un incarico dato in appalto ad una cooperativa di Padova, sostenuta da
un socialista locale. Venivo pagata pochissimo, neanche 100 mila lire e
senza contributi. Mi sono poi iscritta alla Facoltà di Psicologia alla Sapienza
di Roma. Studiavo nel pomeriggio e preparavo gli esami che andavo a dare a
Roma, in treno. Ricordo la terribile esperienza dell’esame di Statistica in cui
ho studiato intensamente per 3 mesi aiutata da Giuliano che mi umiliava
dicendo che ero una cretina. Riuscii a superarlo con un modesto 23 e finì
quell’incubo dei problemi che non riuscivo a risolvere.



I ricordi di dis-Grazia


Una mia amica con molto senso dell’umorismo qualche volta mi ha chiamato
affettuosamente Disgrazia invece che Grazia, abbreviazione di Graziella.
Infatti una parte di me è decisamente “Nerd” cioè sfigata e un’altra parte
decisamente fortunata. Ad Enna ho superato “alla grande” un paio di eventi
decisamente drammatici. Il primo accadde a novembre del 1980 quando mi
ero messa in viaggio, con degli amici che lavoravano in un gruppo teatrale di
Enna, per andare in treno a Napoli a vedere uno spettacolo teatrale. Era il
periodo in cui furoreggiavano i corsi e gli spettacoli di Aurelio Gatti, un mimo
che Annarosa disegnava in tutte le sue espressioni. Eravamo saliti a Catania
in un treno con cuccette. Forse non avevamo una prenotazione e non so
perché convinsi gli altri ad entrare in uno scompartimento accanto a quello
che avevamo scelto inizialmente. Alle 3 di notte ci fu un grande schianto e
dalla cuccetta superiore stavo precipitando a terra ma riuscii ad aggrapparmi.
Un pauroso silenzio subito dopo. E’ stata una delle più gravi sciagure
ferroviarie avvenuta in Calabria, il 21 novembre 1980. Un treno merci diretto
a Sud, “perdeva” 28 carri merci senza che nessuno se ne fosse accorto. Il
nostro treno che veniva nella direzione opposta, in piena velocità si andò a
schiantare contro i carri rimasti in linea. Alcune vetture deragliarono e
precipitarono nella scarpata. Fu una carneficina: 28 morti e oltre 100 feriti. Ho
aperto il finestrino e fuori ho visto con orrore uno scuro groviglio di acciaio e
di cavi elettrici. Una signora cercava la sua borsa. Noi con le coperte addosso
perché era freddo riuscimmo a scendere facendo attenzione a non calpestare
i fili elettrici. Lo scompartimento prima del nostro, dove inizialmente eravamo
entrati, era rotolato giù nella scarpata e i miei compagni di viaggio dissero
che io li avevo salvati. Forse fu per questo motivo che ho assunto il ruolo di
guida del piccolo gruppo, eravamo in tre o quattro. I soccorsi non arrivavano,
sono arrivati poi dopo più di tre ore. Mi spaventavo di andare a vedere cosa
era successo, temevo di vedere dei cadaveri e ho proposto di andarcene da lì
per raggiungere la stazione successiva e cercare soccorso. A piedi al buio
abbiamo iniziato a camminare fino alla stazione successiva dove abbiamo
scoperto che il personale non sapeva nulla dell’incidente, anzi si
meravigliavano che il treno non fosse ancora arrivato. Una sensazione di
terribile isolamento. Nel mio piccolo note book rosa ho trovato in data
21/11/1980 questo scritto del ricordo di quella notte:

una folle corsa scomposta
paura del vuoto nero
hanno spezzato il corso dei miei pensieri
prigione di ferro spettrale
tra incastri di lamiere
solo due gridi senza più fiato
poi più nulla,
non una voce, non un pianto
silenzio di morte nel burrone nero
eppure la vita era pronta
per scoppiare di nuovo
incastro di vita e di morte.
Una luce distratta ha soccorso i nostri occhi
Ha ricomposto i nostri corpi lontani
Sfumando il buio dentro di noi.

Arrivati a Napoli ci aspettava un’altra tragica sorpresa. Il terribile terremoto
dell’Irpinia. Non ricordo di averlo sentito perché credo che fossimo in
movimento mentre la terra tremava. Quello che ricordo è che vidi dal
finestrino del treno, alla stazione di Napoli forse, tante persone che correvano
come impazzite e mi sono messa a piangere. Era troppo! Nei giorni
successivi la famiglia che ci ha ospitato era all’erta per il terremoto e abbiamo
dormito vestiti. Ricordo l’incontro con una giovane ragazza che mi fece
ascoltare per la prima volta le canzoni di Pino Daniele. Ritornai ad Enna di
notte con Giuliano che era più arrabbiato che spaventato e mi venne a
prendere perché i treni non partivano, in automobile, la rossa fulvia coupé.
Ero molto stordita e confusa e credo che non dissi una parola per tutto il
viaggio. Guidai per un piccolo tratto per dargli il cambio ma ci fermò la polizia
chiedendomi se stavo bene, evidentemente avevo sbandato.

Il concerto di Frank Zappa

Sono andata al concerto da Enna a Palermo con Marilina e il suo fidanzato di
allora Sandro un giovane di Siena capitato ad Enna come quadro del Partito
Comunista. Non avevo mai ascoltato Frank Zappa, credo che andai per
curiosità e per compagnia. Ero rimasta da sola ad Enna con Sandro che si
era sistemato a casa mia per darmi protezione perché Giuliano si era
trasferito per andare a lavorare in Sardegna. Sandro cantava insieme a
Marilina e suonava la chitarra e sicuramento era un fan di F.Zappa. Era il 14
luglio del 1982 e il concerto era allo stadio alla Favorita a Palermo. Erano
anni caldi. A giugno c’era stato l’omicidio di Dalla Chiesa a Palermo e la
mafia sparava. Lo stadio era strapieno, si sentiva e si vedeva malissimo.
Dopo una mezzora di concerto, improvvisamente dei ragazzini decidono di
avvicinarsi al palco e rompono un cancelletto e poi altri entrano nel prato. A
quel punto si crea il caos e le forze dell’ordine intervengono pesantemente
lanciando lacrimogeni. E’ il panico totale. La polizia non era minimamente
coordinata, era stata una reazione esagerata. Ricordo che Sandro mi prese
per un braccio e mi spinse per raggiungere l’uscita. Fuori dallo stadio siamo
stati inseguiti mentre la polizia caricava e c’era fumo. Ci siamo rifugiati in una
specie di magazzino, dove c’erano altri ragazzi spaventati come noi.
All’improvviso la porta si apre ed entrano i poliziotti con maschere ed armi
puntate. Ci dicono di metterci al muro e di alzare le mani. Ci perquisiscono.
Mi trovano in tasca una bustina con dei corallini bianchi. La scambiano per
droga e mi ordinano di andare in questura, per fortuna uno di loro si accorge
dell’errore e mi lasciano stare. Sono morta di paura soprattutto nel vedere le
loro facce spaventate, dai lineamenti alterati e con le mani che tremano con
le armi puntate. Il concerto era finito a “schifio”.

La fuga da Enna

Dopo la partenza di Giuliano per la Sardegna, sono rimasta da sola ad Enna
per qualche mese. Ero tentata di rimanerci per sempre perché non volevo
trasferirmi in Sardegna, il mio matrimonio era in agonia e sapevo che il lavoro
precario che svolgevo era destinato a diventare stabile, infatti così è stato.
Molti episodi mi hanno convinto che non ero al sicuro. Ricevevo inquietanti
telefonate anonime, mi sentivo osservata, guadagnavo pochissimo, mio
padre mi telefonava pieno d’ansia e aveva rimproverato (giustamente)
Giuliano per avermi lasciato sola. Ricordo di aver ascoltato la telefonata di
mio padre che gli chiedeva se mi lasciava dei soldi per l’affitto e per mangiare
e lui gli rispose in modo sprezzante, in siciliano, come faceva con i suoi
dipendenti. Decisi di tornare ad Ancona e scrissi una lettera di licenziamento.
Ricordo il grande appartamento svuotato e pieno di pacchi e pacchetti e la
mia paura di non riuscire a partire, come se Enna fosse diventata la mia
prigione e non avessi più le energie per liberarmi e iniziare una nuova vita. In
realtà ho capito in seguito che la vera prigione da cui non riuscivo a liberarmi
era il mio matrimonio. Quando ho visto l’appartamento nel “grattacielo” vuoto
e soprattutto al momento del decollo in aereo, mi sono sentita finalmente
leggera e libera.

Vorrei concludere con questa citazione tratta dal mio diario in data 16/10/80:

Ora che avete sfondato il muro a testate, che cosa farete nella cella
accanto?
S.S.Lec

Ancona 23/12/2019